giovedì 21 febbraio 2013

LA NONNA ELENA - 2 marzo 1913 - 2 marzo 2013


Nel centenario della nascita della Nonna Elena ed a vent’anni dalla sua scomparsa le dedichiamo questo ricordo, con tutto l’affetto e l’amore che lei ci aveva donato ed insegnato.


Marone, 2 Marzo 1986


LA NONNA ELENA, COM'ERA

La Nonna Elena era un tesoro dell’umanità, racchiudeva in sé qualità inestimabili e rare…era buona, generosa, paziente, intelligente, positiva, coerente…ma non solo! Era dotata di un grande spirito di sacrificio e di perseveranza. La vedevi serena soltanto quando poteva rendersi utile, perfino con abnegazione, per far sì che le persone care e quanti le erano vicini fossero contenti e si sentissero a proprio agio.
Rifletteva molto sul senso della vita e ponderava con molta saggezza le decisioni da prendere, sia per sé che per altri. Non giudicava le persone, bensì tendeva a comprendere e rispettare le scelte altrui; era riservata ma nel contempo affabile e cordiale.
Una sua grande caratteristica era la laboriosità: fin da piccola, essendo la prima di 6 fratelli e sorelle, aveva dovuto affrontare la vita con l’impegno nei lavori domestici, agricoli, nella crescita dei suoi fratellini…poi nelle fabbriche e come governante; infine l’impegno nella sua e nostra famiglia.
Un ricordo che predomina nella mia memoria è di vederla “tuta badanà su par la fornela a mescolare la polenta e le tecie del magnare, fare la lissia (il bucato), moldre le vache, fare el fen, starghe drio a l’orto” e tante tantissime altre attività faticose…e non si lamentava mai…al massimo crollava stanca morta so la carega.
Ricordo però anche con quanta enorme soddisfazione la vedevamo ritagliarsi un po’ di tempo libero per poter leggere un giornale (Famiglia Cristiana, L’Operaio Cattolico), solitamente alla domenica pomeriggio; infatti era sempre ansiosa di sapere come andavano le cose nella società ed in politica. Quando acquistarono la prima radio (1955 circa) ascoltava sempre i giornali radio e le rubriche di approfondimento…e lo stesso faceva quando, nel 1971, acquistarono il primo televisore. Era molto appassionata nella conoscenza della storia e della geografia: in quest’ultima era proprio forte, al punto che sia noi che i suoi nipoti chiedevamo sempre a lei quando c’era qualche dubbio geografico! Amava fare le parole incrociate ed anche in questo era molto brava. Seguiva con entusiasmo i programmi radio-televisivi culturali, i documentari, i telegiornali, i giochi a quiz (ricordo Lascia o raddoppia? Portobello…), la S.Messa, il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, il concerto di Capodanno. 


Le piaceva molto giocare a tombola ed a carte…con i bambini specialmente! ed anche loro non si stancavano mai per la briscola, la papaluga, cavacamixa…e se vinceva la nonna erano muxi. Si divertiva a fare gli indovinelli….che erano poi sempre quelli, ma a loro piaceva comunque…dai nonna…
palazzo verde, camere rosse, abitanti neri…cos’è?
la camina co la testa par sparagnare le gambe…cos’è? cirolin che cirolava, senza ali lui volava, senza becco lui beccava, cirolin che cirolava…cos’è?
alto altin, cuerto de lin, albero no l’è, indovina cossa che l’è… Poi però il repertorio aumentava perché ne faceva altri trovati su riviste o calendari come quello di Frate Indovino. Le piacevano le massime, le metafore e soprattutto i proverbi: di questi ne conosceva tantissimi, particolarmente quelli dialettali che facevano parte della cultura e della tradizione popolare, e che erano molto usati nella vita quotidiana come fonte di saggezza. Noi ne abbiamo imparati tanti da lei e dal nostro papà; per non disperdere quel prezioso patrimonio storico sono scritti in una raccolta a parte. Alcuni che citava spesso: a sto mondo a simo come i cupi; ‘na man lava l’altra; fin che no canta i Galilei non ti spogliar dei panni miei (questo lo odiavo perché, anche se faceva caldo, lei non mi faceva togliere le calze e le maniche lunghe fino all’Ascensione , in genere a metà maggio, periodo delle rogazioni. 

La nonna Elena era cattolica e frequentava le funzioni liturgiche con grande devozione, ma non era fanatica; la sua era una fede sincera, pura e direi perfino innocente ; aveva una fiducia incondizionata nella Divina Provvidenza, era molto devota della Madonna ed infatti apparteneva all’associazione cristiana delle Figlie di Maria e dell’Apostolato della preghiera. Si affidava con fiducia ai suoi poveri Morti, per i quali aveva una vera devozione. Insomma la sua era una fede di sostanza e non di apparenza. Anche in casa pregavamo insieme alla sera e prima di dormire recitavamo tutte le preghiere e le giaculatorie. Quando in Parrocchia organizzavano i pellegrinaggi ai Santuari (Madonna di Monte Berico, Sant’Antonio da Padova ed altri) lei faceva il possibile per parteciparvi. Quando succedeva qualcosa di straordinario esclamava spesso “aah Maria Vergine benedeta de Monte Berico!!!….aaahhh Yoso Maria yutème!!!...aaahhh sant’Antonio da Padova yutème”. 
Se si smarriva qualcosa di importante si rivolgeva al Santo con i “siquieris miracula, mors error calamitas, demon lepra fugiunt, tegri sunt’un sani” …e spesso con questa implorazione la ricerca andava a buon fine! Nel suo cassetto del banco in camera e nella sua borsetta teneva le sue corone del rosario; sopra il comò c’era sempre una Madonnina di Lourdes formato bottiglietta piena di acqua della sorgente, che si faceva portare da qualche parente che visitava il santuario; sapendo quanto lei ci tenesse, finalmente nel 1973 potemmo andare insieme a Lourdes con un pellegrinaggio dell’Unitalsi di Vicenza, e questa cosa le rese immensamente felice. Non potè invece andare a Fatima, però caso volle che morisse proprio il 13 maggio, giorno della Madonna di Fatima. Negli ultimi anni della sua vita ascoltava per radio i messaggi della Madonna di Medjougorie, alcune volte se li faceva scrivere da qualcuno di noi che eravamo lì in quel momento… 
Raramente ricordo di averla vista arrabbiata…magari si, quando mio fratello non voleva mangiare la minestra di verdura o si rifiutava categoricamente di prendere l’olio di ricino (nascondendosi sotto il letto). Poteva capitare che si spazientiva se noi o i nipotini non ascoltavamo le sue raccomandazioni, ed in quel caso sbottava “no stè mia farme intavanare, savìo tuxi!! 

La nonna Elena aveva buoni rapporti con il vicinato e con le famiglie dei parenti, sia vicini che lontani. Ricordo che c’era molta solidarietà fra le donne della contrada, si aiutavano a guardare i bambini, a scambiarsi i semi da orto o i “buti dei fiuri” (germogli), a fare qualche acquisto l’una per l’altra se capitava di andare a Conco o a Marostica od anche solo giù in paese nelle boteghe degli alimentari. Riguardo ai bambini, c’era un aneddoto: i ragazzetti andavano sempre in giro in gruppi a giocare per i prati e boschi della vallata armati di fionde e picarane; quando si faceva sera, le mamme li chiamavano a gran voce per farli ritornare a casa….così una mamma diceva all’altra: comare, dà che te ghè la boca verta, ciama anca me toxo!! 

Spesso loro erano comari per il fatto che tenevano a battesimo vicendevolmente i loro neonati; naturalmente anche i mariti acquisivano a loro volta il titolo di compare. 
La nonna Elena aveva la comare Catina dei S-cianfre (del mio battesimo) con relativo compare Nicola; la comare Nei (del battesimo del Piergiorgio) e relativo compare Archimede (el fornaro furlan).

A proposito dei battesimi c’è una storia curiosa sul nome della nonna.
A 15 anni di età andò in Comune per farsi fare la carta di identità, in quanto doveva andare a lavorare. All’anagrafe di Conco le chiesero il nome e la sua data di nascita; lei rispose Pezzin Maria, nata il 2 marzo 1913. L’impiegato cerca nei suoi registri ma non la trova. Le chiede, ma sei sicura? …perché noi qui abbiamo una Pezzin Elena, nata in quel giorno…vai a chiedere a tua mamma con quale nome ti hanno battezzata! Tornata a casa, sua mamma , la povera nonna Catina, le disse che il suo vero nome era infatti Elena, ma che l’avevano sempre chiamata Maria (in quei tempi queste cose succedevano abbastanza spesso!!). E fu così che la nonna scoprì solo a quell’età che non era Maria bensì Elena, ma per tutti in contrada lei era ed è la Maria del Checo Comare….se chiedete alla Bruna o alla Rita de la botega, ancora adesso la chiamano Maria..che dopo sposata diventò anche Maria del Mino. Comunque, per la cronaca, chi ha iniziato a chiamarla Elena in famiglia fu il suo dendre (genero) Dino!! e da allora lei diventò la nonna Elena. 

La nonna Elena era una bella donna, piuttosto formosa, con i capelli ricci color castano chiaro a riflessi ramati, con gli occhi azzurri e dolci; era semplice e curata ma non vanitosa, portava sempre una spilla a chiusura della scollatura della maglietta. Nonostante il grande lavoro agricolo e domestico che le toccava fare, era sempre vestita con cura e con abiti poveri ma puliti e non certo straccioni; come tutte le donne del tempo usava, sopra la gonna e la maglia, un grembiule e la traversa; le gonne a metà polpaccio ed ai piedi i sopèi; d’inverno se usciva si metteva lo scialle di lana sulle spalle ed un fazzoletto in testa legato sotto il mento. Nell’armadio però teneva con grande cura i suoi pochi abiti della festa, compreso il paltò, i guanti e la sciarpetta per il collo; teneva anche quelli della mezza festa che servivano per andare in giro fora par la setimana, come in Conco dal dotore o a Marostega al mercà del marti o per qualche pratica di ufficio.


La nonna Elena, oltre ad aver lavorato tanto nell’agricoltura ed allevamento di animali, in tutta la sua vita si è dedicata con tanto amore e cura a far crescere bambini ed a sostenere famiglie, dapprima quella di nascita, poi la sua, poi quella di suo fratello Piero ed infine la mia per 20 anni esatti. Noi siamo eterni debitori di riconoscenza verso di lei per averci dato così tanto aiuto ed immenso affetto; possiamo però dire ricambiato senza riserve…e pensiamo che per la sua terza età sia stato più positivo vivere, seppur con tanto impegno ma con un ruolo importante, nella nostra famiglia, piuttosto che restare sola e senza il suo compagno di vita.


LA SUA STORIA

La nonna Elena nacque il 2 marzo 1913 a Gomarolo in contrà Jacomiti (ora Rizzoli) nella casa patriarcale, dove vivevano anche il suo nonno paterno Piero (Pezzin Pietro) detto Piero de la Comare e sua moglie Elisabetta Predebon (nona Beta, della famiglia dei Bessega de Comarolo).  Suo papà era Pezzin Francesco detto Checo del Piero Comare o Checo Comare, nato nel 1878 e morto nel 1963;  sua mamma era Schirato Caterina (nona Catina), nata nel 1885 e morta nel 1951.   La Famiglia era detta  “dei Comare” poiché il bisnonno Piero, rimasto orfano da piccolo, fu allevato da una zia che faceva l’Ostetrica di professione per tutto il Comune di Conco;  in quei tempi questa figura era denominata “la Comare”. Non conosciamo il nome di questa Ava, né da quale contrà e famiglia del paese fosse originaria.
Il nono Checo  era nato lì, in quella casa, insieme ad altri fratelli e sorelle: io ricordo xia Maria, xia Neni (Maddalena),  xia Pasqua, xio Joani (Giovanni), xio JiJio (Luigi).  Tutti uscirono presto di casa sistemandosi in giro per il mondo con le relative famiglie;  così il nono Checo potè accasarsi lì con i genitori e curando l’attività della stalla e dei terreni.  Suo padre faceva il sensale ed era perciò spesso via, a Marostica o Bassano, per procurare affari di compravendita come mediatore.
La nona Catina proveniva dalla contrà Bornei (Brunelli) che è quella su a Conco vicino al Cimitero; aveva fratelli xio Bepi, xio Toni, xia Malgri, sorella xia Marieta e qualcun altro che non ricordiamo.  Era una donna molto buona e molto religiosa.  Riusciva ad andare d’accordo anche col so missiére (il suocero), il bisnonno Piero, notoriamente despota che, pur vivendo nella stessa casa, faceva vita separata dalla moglie, forse proprio a causa del suo tremendo carattere.
La nonna Elena fu la prima di 6: nel 1915 nacque Giuseppina (xia Pina), nel ’19 Elisabetta (xia Iseta, Suor Brigida), nel ’21 Romilda (Suor Regina), nel ’23 Pietro (xio Piero) e nel ’25 Ettore (xio Etore).
 Nonostante la sua giovanissima età, la nonna ricordava qualche preciso e drammatico episodio della prima guerra mondiale. Per esempio quello dello scoppio della polveriera a Gomarolo, oltra dei Pulìdi, nella notte del 24 ottobre 1918. Lei aveva 5 anni ed in quella notte  era con la mamma, la sorellina di soli 3 anni ed il nonno e la nonna (il papà era militare in guerra  a Rossano Veneto, vicino a Bassano del Grappa a fare il cuoco e ad Asiago come sergente stimatore  scelto).  Dormivano provvisoriamente  in una vecchia casetta  in quanto i militari dell’esercito italiano del fronte avevano occupato la loro casa per adibirla a cucina militare.  Al momento dello scoppio della polveriera il pavimento della camera crollò e lei corse fuori ma precipitò di sotto dove, per fortuna,  erano accatastate fascine di legna.  Il nonno la soccorse e, insieme a tutti gli altri, fuggirono su pa’l Monte verso Conco; era il tempo delle castagne, sui prati abbondavano i ricci e lei  non dimenticò mai più il dolore delle spine che si infilavano sotto i piedini nudi.  Per un periodo del dopoguerra  la nonna Catina con  le due sorelline dovettero andare da parenti in pianura, giù a Vallonara, intanto che cessavano le operazioni militari e che  venivano riparati i danni alle case.
Dopo la nascita di tutti gli altri fratellini, in casa non stavano male, pur se molto stretti, poiché avevano una stalla grande con due vani e il fienile, molti prati,  boschi , campi e orti; ciò permetteva loro di tenere animali in buon numero e coltivare abbondanti  ortaggi, cereali e piante da frutto.   Per questo il cibo, pur non essendo  abbondante,  non mancava mai a tavola….ma anche il lavoro abbondava, e ce n’era per tutti, grandi e piccoli, per mandare avanti tutta la loro economia.
Il fatto di essere la primogenita comportò alla nonna un inevitabile maggior carico di lavoro, a partire dal doversi occupare  in prima persona e fin da molto piccola dell’allevamento dei fratellini e sorelline.   Essendo anche una bambina robusta, di carattere docile e volonteroso e dotata di una grande laboriosità, non si risparmiò mai e diventò indispensabile per la famiglia, seguendo papà e nonno nella stalla e nei lavori agricoli.   Frequentò la scuola elementare fino alla classe quarta;  poi continuò per conto suo a leggere quando poteva tutto quello che le capitava sottomano (ben poco a quei tempi!)…per lei la lettura era e fu  sempre stata una grande e vera passione.
Da bambina avrebbe voluto giocare come tutti quelli della sua età (e di bambini ce n’erano davvero tanti!), ma erano più le volte che doveva rinunciare per via dell’aiuto che doveva dare in famiglia.  
Un giorno cedette alla voglia di andare nel cortivo degli zii vicini dove le bambine sue cugine stavano giocando;  ad un certo punto sentì dietro le gambe,sui piccoli polpacci, una scarica de vis-ciasàe che suo nonno le inflisse con una piccola ma micidiale stropa (rametto di salice)!! Infatti, non appena lui  si accorse che la nipotina non era rimasta a svolgere il lavoro che le aveva assegnato, pensò bene di darle quella dolorosa lezione per farle ricordare per sempre quali erano i suoi doveri.   
Il nonno però le voleva anche tanto bene e spesso la portava con sé giù a Marostica  e le prendeva sempre qualcosa di buono da mangiare: le carobole (carrube dolci), le sirele (piccoli confettini di zucchero), la liquirizia ed anche bei pezzi di pane e formaggio!! questo la faceva davvero contenta…Una sera, tornando a casa a piedi, c’era la luna piena….salendo  pian piano da Marostega su  pa’l Sejo, osteria dopo osteria (il bisnonno Piero non disdegnava mai on bon bicere de vin!!), arrivati ai Scaole (contrada in fondo a Gomarolo) lei gli chiese: nono, ma ‘sta luna qua xela quela che ghe jera  anca dó in Crosara?....!
In quei tempi la gente di Gomarolo andava quotidianamente a Marostica per spese od affari vari; il normale mezzo di trasporto era il cavalo de sant’Antonio, cioè le gambe.  Il percorso usato era quell’antico sentiero pastorale di origine romana chiamato el Sejo, tuttora esistente; i giovani lo facevano di corsa.   In estate invece, quando scarseggiava l’acqua piovana e dato che a Gomarolo non ci sono sorgenti, le persone dovevano andare in una località sopra Laverda chiamata Valpija dove c’era una sorgente per prendere acqua, e ci andavano a piedi con le bote cargàe  so la groja (il carretto trainato a mano).   Anche alla nonna era toccato spesso di dover andare in Valpija a prendere acqua insieme ai suoi fratelli o sorelle. Oppure in montagna a prendere legna durante l’autunno.
Mi raccontava che da bambina doveva portare le mucche al pascolo lì nei loro prati della vallata (el Gecole, el Monte, ai Lampi ed altri che non ricordo) oppure fino alla Possa Granda, un appezzamento di prato e bosco sempre di proprietà del suo nonno che si trova tra i boschi del Buste e la contrada Alto (versante Tortima). Quando era lì da sola ed arrivava un temporale in estate, poverina…moriva di paura e non sapeva dove nascondersi e come farsi coraggio…La Bixa, la Toscana, la Bandiera continuavano tranquillamente a mangiare la loro buona erba!! la cagnolina era ancor più terrorizzata di lei!!immaginatevi la scena….

Quando la nonna ebbe circa 15 – 16 anni si rese necessario che qualcuno della famiglia dovesse cominciare a guadagnare un salario; ed anche questa volta toccò a lei, visto che a casa e nei prati ora potevano aiutare sorelline e fratellini. Perciò intorno al 1929 – 30 partì insieme  a due sue cugine, la Maria e la Isetta, destinazione Luserna, in provincia di Torino;  lì qualche parente aveva procurato per loro un lavoro in una fabbrica, credo di filati. Era una zona di montagna, abitavano in una stanza priva di riscaldamento ed in cui, quando pioveva, entrava l’acqua dal tetto…trascorsero un inverno di sofferenze e stenti, poco cibo e molto lavoro….dopo un anno tornarono a casa. A questo punto alla nonna qualcuno trovò un lavoro a Milano come governante presso una famiglia benestante in Corso di Porta Romana.  Lì si trovava molto meglio che a Luserna, Mi raccontava di Milano, della città, di tutti quei negozi colmi di cose belle e buone, degli autobus, delle bellissime chiese….lei era incantata da tutto questo ambiente che nemmeno aveva immaginato ci fosse al mondo! Ma dopo appena un anno il suo nonno Piero la richiamò a casa, dicendo che era molto meglio che si dedicasse alla famiglia ed alla terra…in realtà lui aveva una predilezione per quella nipote e di tutto l’aiuto che gli dava… non poteva sopportare che fosse lontana. Ma intorno al 1935 le sorelle Pina e Isetta partirono per andare a lavorare in Piemonte, nelle fabbriche di filati e tessuti del Biellese. Dopo un po’ di tempo  chiamarono anche la Maria, dicendo che c’era un bel posto come governante in casa di proprietari di una fabbrica, la Barberis Canonico di Pratrivero vicino a Portula, provincia di Vercelli.    
Così la Maria lasciò nuovamente il paesello natìo ed emigrò in Piemonte. A casa rimasero nonno, papà, mamma, la sorella Romilda e i due fratelli che, seppur molto giovani, davano l’aiuto necessario ai lavori della terra. Il bisnonno Piero, su di età, accusava i disturbi della vecchiaia, sia nel corpo che nella mente. Mal digerì la partenza della Maria, così brava e obbediente e che lo seguiva con pazienza in tante necessità. Comunque fu assistito molto bene dalla nuora, la nona Catina.  Intanto la nonna Elena prese servizio in casa dei padroni della fabbrica come governante – balia – tuttofare e si doveva far carico di ogni aspetto della gestione della casa, dalle pulizie al cucinare, dal lavare e stirare all’accudire giorno e notte due bambini piccoli. Mi raccontava che il lavoro era così tanto al punto che alla sera le gambe non la reggevano più, anzi, non dormiva di notte per i dolori e la stanchezza.  Sfruttamento al massimo grado, ed in cambio una misera paga e mai una parola o un segno concreto di riconoscenza, anzi… Una volta, pulendo la camera  dei padroni, sotto il letto trovò una moneta da una lira; la consegnò subito alla padrona, che la ringraziò!  Lei rimase sempre convinta che l’avesse messa lì di proposito per constatare la sua onestà….ma una mancetta o un regalino, mai!! Il giorno di riposo non esisteva proprio;  per salutare le sue sorelle, che abitavano nel paese vicino, a Portula, doveva fare gli straordinari e ritagliare un paio d’ore una volta ogni tanto.
Questa situazione andò avanti credo per un anno o più;  la nonna scrisse a casa di come andavano le cose, ma con l’intenzione di rimanere in Piemonte, magari cercando un lavoro un po’ più sopportabile, per esempio lavorare in fabbrica come le sue sorelle. Il suo nonno però colse la palla al balzo (nonostante l’incipiente arteriosclerosi!)  e le scrisse di tornare a casa. Ma lei, risoluta, rispose che era decisa a rimanere lì per poter guadagnare ed aiutare la famiglia. Un bel giorno ricevette una lettera da lui in cui le diceva di tornare subito a casa perché sua mamma, la nonna Catina, stava male!  Perciò lei prese armi e bagagli e si precipitò a casa, nell’angoscia e con la paura di non ritrovare più in vita la sua adorata mamma…   Nell’arrivare a casa, la trovò su pa’l camìn che mescolava la polenta….come stèu mama?  Ben fióla! ma tì cossa fetu qua?!  com’ela che te sì vegnesta a casa? no te gavarè mia calcossa de male?!...  Mama, el Nono me gà scrito de tornare in pressa parchè tì te jiri malà grave!...  Intanto il Nonno, nella stanzetta vicina, dove viveva per conto suo, rideva sotto i baffi!!  Era riuscito a far tornare la sua adorata nipote, risolvendo così il suo desiderio di averla a casa e di non far più stare lei a servizio di padroni schiavisti.
Così si chiudeva per la nonna Elena il capitolo emigrazione; era poco prima della seconda guerra, anni 1938 – 39. Fu in quegli anni che morì la Nona Beta e, più avanti, nel 1943, anche il Nono Piero.

GIU’
  IN  PAESE, nel centro di Gomarolo, in contrada Puvole, abitava un ragazzo in gamba, figlio unico, rimasto senza papà, che di lavoro faceva il carrettiere – conducente;  era la benedizione della sua  mamma e della zia, con le quali viveva.  Era lui a provvedere al sostentamento della famigliola, lavorava con grande passione ed onestà e si guardava intorno per trovare una compagna della sua vita.   Nella contrà Jacomiti c’era la famiglia dei Comare che di brave e belle ragazze ne aveva addirittura quattro!! Così il bravo ragazzo, che si chiamava Domenico Pezzin detto Mino de la Sioreta, cominciò a “starghe drio”  (corteggiare) alla Isetta, ma senza successo…la toxa no la ghe sentiva da quela recia…. Proprio in quel periodo era partita per andare a lavorare in fabbrica in Piemonte  ed al suo ritorno si fece Suora!! Lui non si perse d’animo ed un bel giorno fermò la Maria chiedendole se poteva andare a catarla (a trovarla, un inizio di corteggiamento serio)….lei gli rispose timidamente che le avrebbe fatto piacere ma che avrebbe dovuto chiedere il parere dei suoi genitori… Dopo qualche giorno si rividero e lei poté annunciargli che so pupà e so mama i jera dacordo.  Da quel momento lui avrebbe potuto andare a filò nella stalla dei Comare, alla sera, dove la famiglia si ritrovava dopo la cena.  In quel modo gli aspiranti fidanzati potevano parlare fra loro e  “conoscersi” un po’ meglio.  C’era un detto: “el ghe tole le misure”, cioè il ragazzo si faceva un’idea del carattere e del comportamento della sua lei…e viceversa.
Erano tempi duri, sia sul piano economico-sociale che politico; il fascismo imperava, ed all’orizzonte si profilava il dramma della seconda guerra mondiale. Anche la Maria era in procinto di partire per il Piemonte, chiamata dalle sorelle, per quel lavoro di governante. Così i due quasi fidanzati dovettero rassegnarsi a mantenere il loro legame via lettera ed a non potersi vedere per un lungo periodo.  Ma, chiamata dal Nonno che la voleva a casa, lei fece ritorno al paese. Purtroppo però la gioia durò poco poiché fu allora che al Mino arrivò la fatidica cartolina di chiamata alle armi, questa volta irrevocabile: partenza per la guerra. Si dovettero lasciare amaramente per la seconda volta, ma promettendosi il reciproco affetto. Dal fronte lui le scriveva raccontando il drammatico susseguirsi delle battaglie in Grecia – Albania, i rischi continui di morire, la vita durissima al fronte, le malattie, la fame…Nella busta spesso metteva anche un biglietto da portare alla sua mamma; glielo leggeva la Maria perché lei non essendo andata a scuola  era analfabeta. Ad un certo punto però el postin smise di consegnare le tanto attese lettere… cosa potevano pensare le due donne disperate?  Nessuno avrebbe potuto dare  notizie del loro Mino lontano…e questo silenzio durò due anni, tanto che erano preparate a ricevere la notizia più drammatica… Ma mai perdettero la speranza di vederlo tornare.  Ed un bel giorno infatti sulla porta di casa si presenta un ragazzo tutto pelle ed ossa, con la barba lunga, una divisa militare tuta strassonà…ma nel vederlo sua mamma lo riconobbe immediatamente, anche se non credeva ai suoi occhi nel rendersi conto che non era morto, che era tornato….il suo unico figlio era ancora vivo!!!    Non passarono molte ore che il Mino si presentò, sistemato un po’ alla meglio, sulla porta di casa della sua Maria…. incredula e con il cuore a mille gli gettò le braccia al collo:  era tornato!!
Sembrava un vero miracolo, con tutto quello che aveva passato e rischiato! innanzitutto per la mamma, che era sola al mondo ed aveva bisogno di suo figlio come dell’aria…. Lui si rimboccò le maniche e non rimase neanche un momento con le man in man, com’era sua abitudine:  ben presto si riprese in forze, mangiando uvi frischi, polenta e formajo, polenta e late…E non passò molto tempo che con la Maria parlò di matrimonio…  si volevano molto bene e desideravano tanto mettere su la loro famigliola.   Così, trascorsi alcuni mesi, fissarono la data delle nozze al 23 novembre…era l’anno 1946.  Il Nono Checo provvedeva alla dote, cioè il corredo della figlia Maria Pezzin…



La Maria aveva 33 anni e il Mino 34…per quei tempi un po’ su di età, ma la guerra aveva causato questo e non solo, anzi, loro si consideravano veramente fortunati!!    Dopo la semplice cerimonia, celebrata nella Chiesa parrocchiale di Conco dal Parroco Don Luigi Cappellari  alle 6 di mattina, gli sposini si recano in viaggio di nozze con la corriera fino a Padova, alla basilica del Santo (Sant’Antonio) e tornano a casa alla sera. Naturalmente la loro abitazione è quella del Mino, insieme alla mamma, diventata madona (suocera). La convivenza non riserva grandi sorprese; infatti le due donne si conoscevano già abbastanza bene ed avevano  entrambe un ottimo carattere…si aiutano a vicenda, anche quando il Mino deve stare lontano per il suo lavoro stagionale.
La nonna Elena doveva dividersi tra la nuova casa e quella dei suoi genitori, per aiutarli nei lavori della terra e degli animali.  Ben presto si accorge di aspettare un bambino…. che gioia poterlo scrivere al suo Mino che è lontano!! Ai primi di novembre del 1947 lui  torna a casa e dopo pochi giorni, il 12 di quel mese, nasce  il loro primo figlio che chiamano Pier Giorgio, un bambinone che sembra avere già qualche mese.  In casa era arrivata la benedizione! un bambino dopo tutte le sofferenze dovute alla guerra..era una nuova vita. Il bambino cresce robusto e vivace. Il Mino riparte per due primavere consecutive verso i lavori lontani;  quand’ecco una lettera della sua Maria che gli annuncia di essere ancora in attesa….Tornato ai primi di novembre, dopo poco nasce una bambina ben più minuta del fratello ma pure lei sana e vivace…la chiamano Maria Teresa. Quando lui riparte  alla primavera successiva, mamma e bimbi restano in casa con la nonna, un po’ malaticcia ma che riesce ancora a dare un bell’aiuto per slevare i putei.
 La Maria era una brava mamma, serena e dolce, ascoltava e metteva in pratica tutti i consigli utili delle due nonne, con un aiuto reciproco molto grande. Infatti  in quei tempi le donne di casa e del vicinato si sostenevano reciprocamente negli impegni familiari e nell’allevamento dei bambini;  tanta era la povertà ma tanta anche la solidarietà. La nonna Elena in quel periodo era molto affiatata con la Santola Nei, vicina di casa e con la Santola Catina di S-cianfre, che abitava vicino alla casa dei Comare e le cui due figlie (Lina ed Angela) un po’ più grandi di noi ci facevano spesso da balie. Nel 1951 però, purtroppo la sua mamma (Nonna Catina) muore. Così per lei si raddoppia l’impegno di aiutare suo papà e per due anni fa la spola tra i Puvole e i Jacomiti. Nel 1953 si ammala e muore anche la suocera (Nonna Maria). 
A questo punto nonna Elena e nonno Mino decidono di lasciare la casa dei Puvole per trasferirsi con il Nonno Checo ai Jacomiti, così che lei non doveva tenere due case, con tutto il lavoro che comportava.  Con il nonno Checo e lo zio Piero (quando tornava dai lavori stagionali d’inverno) facevano una sola famiglia.
In quel tempo, oltre alle mucche, si teneva anche il maiale. Noi bambini, di 4 – 6 anni ed oltre, dovevamo aiutare in tante piccole attività la nostra mamma ed il nonno: va a tore le legne, porteghe le scorse al mas-cio, porteghe l’erba ale galine, và a tore el pan dó in botega, porteghe el cafè al Nono, vegnì a rastelare el fen, va a torme la secia…e così via…. Poi, alla domenica, il Nonno ci dava la mancia…5 lire i primi tempi, poi passò a 10! che noi  in parte spendavamo per la liquirizia o i confeti alla domenica quando andavamo a Conco ala dotrina  ed in parte mettevamo nella musina (salvadanaio).
La nonna Elena in quegli anni ’50, ’60 potè dimostrare quanto fosse capace di sostenere tutti gli impegni domestici e di fare grandi economie per far quadrare il piccolo ma importante bilancio familiare.  Era una cuoca di ottimo livello, con la propensione a scoprire nuovi modi di cucinare senza tralasciare la sua cucina tradizionale; per questo aveva una sua raccolta di ricette che trovava sulle riviste, sia per cucinare che per conservare. L’allevamento di animali e la coltivazione dell’orto ci permettevano di avere latte, formaggio, verdure e frutta, uova, carne. Questa si consumava soltanto una volta alla settimana, alla domenica o nelle feste grandi: fegato, bollito, spezzatini…a volte tirava il collo ad un gallo ed allora era una vera festa perché lei lo cucinava da leccare il piatto…con la polenta…mi ricordo ancora il profumo!  Qualche volta cucinava il coniglio (quando il papà li allevava) e lo sapeva fare a meraviglia però non lo mangiò mai  (diceva che le faceva senso..). La polenta la faceva quasi tutti i giorni col caliero so la fornela, la mescolava con la mescola di legno e veniva buonissima, sapeva un po’ di fumo e le groste andavano a ruba!  con la feta de polenta il nonno Checo correva dietro ai vermi del formajo, che saltavano, per prenderli e mangiarseli di gusto!!!  Coi uvi frischi la nonna tante volte faceva le tajadele, i pandoli (tipo grossi grissini dolci cotti al forno), a Carnevale le fritole e i grustuli …che buni!!!  D’inverno il nonno Mino rompeva noci e nocciole e lei preparava il buonissimo scrocante (il croccante);  era bravissima a fare gli gnocchi di patate morbidi. Quando uccidevano il maiale, usava il sangue per  fare la torta di frutta che si mangiava con il pane.
La sua passione per la cucina era finalizzata soprattutto per soddisfare al meglio i gusti e gli appetiti dei suoi cari…come quando, di nascosto a sua figlia, faceva il rognone con le cipolle al genero (ed in gran quantità!); quando il “suo Piergiorgio” veniva a Gomarolo non gli faceva mai mancare di sicuro el capusso tajà dó fin da magnare co le patate lesse e i uvi bujìi…..Ai bambini faceva la merenda col panburoesucro, el sbatudìn (lo zabaione) co l’ovo fresco.  Nelle sere d’inverno faceva cuocere i pumi del Monte nel forno de la fornela, che piacevano tanto al pupà, al xio Piero e al Nono Checo… A lei piaceva da morire el pan bioto, quelo fresco ch’el portava dó da Conco ala matina el santolo Archimede, ancora caldo e profumato: ciope, corni, tonde, mantoane. Non facevo in tempo ad entrare in casa con la sporta piena che ne aveva già una ciopa in man…e come che la se la magnava de gusto!!
Come tutte le donne in quei tempi, era sua abitudine andare per prati e boschi in cerca di frutti e verdure spontanei come ad esempio i radici (il tarassaco) nei prati, da cucinare bolliti, i funghi prataruli o i ………… (quelli gialli), mele, pere, fragoline di bosco, more, noci, nocciole, castagne, a seconda delle stagioni. Il tutto messo rento intela gaja (il sacco formato tirando su i lembi del grembiule). E noi bambini, appena un po’ cresciuti, avevamo appreso quel compito di fare i raccoglitori, ma assolutamente mai nelle proprietà altrui; solamente nelle nostre oppure lungo i sentieri o ai limiti dei boschi dove tutti avevano accesso. Insomma, quando si tornava a casa si aveva sempre qualcosa per la famiglia. Per portare le fragole si costruiva un cono con una foglia grande di acero.
Alla Nonna piaceva mettere via le cipolline sottoaceto da mangiare col lesso d’inverno; quando faceva questo lavoro in settembre non si poteva entrare in casa per un bel po’ a causa dell’odore fortissimo di aceto bollito! Metteva via anche la ua regina soto graspa, perla gioia dei grandi, dopo cena a volte, specialmente d’inverno. Questi odori e sapori ce li ricordiamo bene!!...chiedete al xio Giorgio se gli piacciono le cipolline soto axeo…??!!..
Mi ricordo la nonna sempre in movimento, mai ferma un minuto; e quando non era in casa voleva dire che era andata a fare qualche commissione su in Conco, su e dó pal Buale, col so passo gajardo, sempre de corsa poiché il tempo non le avanzava mai: dal dotore, in farmacia, dal scarparo, al cimitero, in Cexa.. Quando siamo diventati più grandicelli abbiamo cominciato ad andare noi bambini a fare tante piccole commissioni, così lei si sollevò un pochino e poteva qualche volta riposarsi o dedicarsi con più calma ai tanti lavori da fare. Le sue gambe spesso le facevano male, specialmente le ginocchia, ed ha cominciato presto ad avere l’artrosi; d’altronde con la vita di fatiche che fece, non c’era da stupirsi.  Però non si fermava mai, e non si lamentava, se non qualche volta per il mal di testa.
Un lavoro in cui era molto brava era quello di fare la cordela, il piccolo artigianato locale del tempo. Di tutte le procedure che servivano, a partire dal fascio di frumento sexolà nel campo, mi ricordo un passaggio particolare che faceva la nonna, cioè la sbiancatura della paglia. Metteva i massi de fastughi dentro una cassa in legno, poi vi inseriva un vaso in metallo contenente delle braci cosparse di polvere di zolfo, chiudeva il coperchio della cassa lasciando così i fastughi in trattamento per alcune ore…Si sprigionava un odore fortissimo e pungente, dovevamo allontanarci velocemente da quel locale altrimenti mancava il respiro e veniva una tosse….che tempi!  Comunque lei curava con grande dedizione i suoi fastughi, era molto brava a fare la cordela di svariate qualità e misure, anche quella finissima, molto ricercata dai compratori del luogo (la Mabile, el Luigi dei Russiti) o dalle Sportare (le donne che facevano le sporte, i cappelli ed altri oggetti ad uso domestico.   


Gomarolo, Agosto 1986

La nonna sapeva rammendare con cura la biancheria, gli indumenti e le calze, metteva le pesse ai pantaloni degli uomini quando erano slixi dalle ginocchia in su. Sapeva fare le calze di lana con i 4 ferri e le faceva molto bene…il nonno Mino era molto contento ed orgoglioso della sua brava mogliettina…el la portava in palma de man!!  In quegli anni le comperò la macchina per cucire Vigorelli, così lei poteva fare gli orli o aggiustare lenzuola e federe; sapete che si riutilizzava tutto fino all’ultimo centimetro…
Ricordo la grande fatica che faceva quando doveva fare il bucato delle lenzuola, nel mestèlo de legno, d’inverno dentro in casa e d’estate fora int’el cortivo! Appena diventata un po’ più grande fui felice di poterlo fare io quel lavoro così pesante; come pure quello di lavare i sulari dele camere con spazzola e acqua sapone…che faticoso.
Quando in febbraio-marzo una gallina diventava chioccia, la nonna partiva subito per andare dai Malaghi a tore i uvi del galo, anche 15 o 16, per metterli a covare. L’agnaro lo faceva lì dentro alla stalla, così la bela cioca la stava al caldìn…quando stavamo lì a fare filò io la guardavo sempre e non si muoveva mai, così per 18 – 20 giorni, dopodiché la nonna cominciava a controllare ed aiutava i pulcini ad uscire pian pianino dal guscio, quando non ce la facevano da soli…e ricordo la sua immensa soddisfazione nel vedere la bela agnarà e la cioca tutta premurosa ad insegnare a beccare ai puldini.  Quando poi potevano cominciare ad uscire nel cortivo e su dietro int’el prà toccava a noi bambini sorvegliarli per evitare che la poja li portasse via…facevamo delle potenti grida battendoci la mano sulla bocca!
La nonna mi prendeva sempre con sé quando andava in Valdelavìa, int’ela contrà di Jorni, a portare la lana vecchia e macinata per far fare le trapunte per i letti, e potevamo così finalmente lasciare indietro quelle vecchie coperte militari che tanto pesavano e niente scaldavano!! Con le trapunte potevamo dormire al caldo, grazie anche alla monega,  quando al mattino in pieno inverno sui vetri delle camere trovavamo quei bellissimi e suggestivi fiuri de giasso.
Mi prendeva sempre con sé quando andava su dala Laura dei Culpi, la sarta…
 o a trovare la xia Lùssia su dai Pissini, dove c’era anche la Emma de l’Angelo che faceva le camixe e le braghe de fustagno pai omini…..
o dó di Fornari per salutare la xia Malgri e la Neta de l’Omero….
o quando, al tempo dei Morti, andavamo al Cimitero per mettere a posto le tombe delle nonne, portando i crisantemi bei bianchi o rosa che con tanto amore coltivava lei durante l’estate….
o quando andavamo ad accompagnare in collegio mio fratello all’inizio dell’anno scolastico ed a trovarlo ogni tanto durante l’anno; certo le spiaceva di avere suo figlio lontano e per tanto tempo, ma a quei tempi i genitori cercavano il modo migliore e con la minima spesa di dare un futuro professionale ai figli…. o quando andava a fare filò giù dalla santola Catina dei S-cianfre, con la quale c’era grande affiatamento ed affetto.

Nel 1959 lo zio Piero si sposò con la Cesira, abitando nella casa paterna, mentre noi nel frattempo ci eravamo sistemati in quella attuale. Nel ’60 nacque la Valeria e nel ’61 Ilario.  La nonna, loro zia, voleva tanto bene a questi bambini, li teneva come fossero suoi figli;  anch’io li sentivo come fratellini e li accudivo con cura, spesso mangiavano e dormivano da noi.
Fu in quegli anni che il nonno Checo chiuse la stalla, vendendo l’ultima mucca, la Bixa; ho ancora vivissimo il ricordo di averlo visto, per la prima ed unica volta, piangere……
Ci dedicammo a lui con più intensità…ricordo che alla mattina gli portavo a letto il caffè orzo con dentro il vino;   dopo che si era alzato, gli sistemavo el pajón de scartossi (il suo materasso) rifacendo il letto con cura e sistemando bene el piumin in fondo ai pìe (lo aveva ereditato da suo papà, bisnonno Piero)… Ma si ammalò; la nonna lo curò  con grande amore. Nel marzo 1963, dopo una dolorosa e lunga malattia alla prostata, morì su all’ospedale di Asiago. Per noi tutti fu un grandissimo dolore, perché lui era stato un uomo ricco di saggezza, generoso ed onesto, laborioso e riservato, molto rispettoso degli altri e con un forte senso della giustizia.
Successivamente la zio Piero trasformò la stalla nella sua nuova casa.
Dal 1964, all’età di 51 anni, la nonna Elena ebbe problemi di salute piuttosto gravi. Dapprima una forte lombosciatalgia che la bloccò nel letto per un lungo periodo, con la conseguente insorgenza di flebiti alle gambe. Successivamente dovette subire un intervento chirurgico per un prolasso uterino.  Infine ebbe una ischemia cardiaca, questa sì veramente seria e che le comportò lunghe cure e frequenti controlli cardiologici, anche per il fatto che si sommò ad una ipertensione ed ipercolesterolemia. Però il suo spirito positivo la sostenne molto in quel brutto periodo della sua vita; io potei seguirla e curarla, sostituendomi a lei nella conduzione della casa ed in  tutte le necessità familiari.  Fu allora che compresi l’importanza di apprendere tante abilità fin da piccoli in famiglia e di saper gestire  le attività domestiche; cosa che, sia mia mamma che mio papà ed il nonno, ci avevano sempre con tanto amore insegnato.
Dopo questo periodo tribolato della nonna, fu la volta del nonno Mino, che pure cominciò a sentire sulla salute le conseguenze di una vita piena di fatiche, privazioni e sofferenze. La nonna lo sostenne con tanta cura ed affetto; nei momenti più impegnativi, anche con il mio aiuto. Trascorsero  comunque alcuni anni insieme, facendosi compagnia, aiutandosi a vicenda e unendo i loro interessi  come tenere le galline o coltivare l’orto. Dopo la sua morte, avvenuta nel novembre 1971, per la nonna Elena iniziò la terza fase della sua vita.
Infatti, nel 1974, venne ad abitare con noi, prima a Sale Marasino e poi a Marone. Noi pensiamo che da un lato abbia sofferto per essersi dovuta staccare dalle sue radici; dall’altro però poteva vivere ancora in una famiglia, avere un importante ruolo parentale. Inoltre poteva tornare e rimanere a casa sua ogni volta che lo desiderava, specialmente durante l’estate. Era felice quando ci si poteva incontrare  tutti, qui a Marone  o a Gomarolo o a Cento e magari trascorrere qualche giornata insieme!! Quando venivamo noi cinque a Palata Pepoli, era perentorio fermarsi dalle parti di Guidizzolo, dove era ansiosa di poter prendere un bel vassoio di paste fresche e buonissime nella solita pasticceria lungo la strada!! O su a Gomarolo, e mangiare pan e sopressa a metà mattina …
Il suo carattere riservato ma cordiale e socievole favorì la convivenza con noi ed i buoni rapporti con i parenti ed i  vicini. D’inverno in particolare, era contenta di non essere sola nella fredda casa di Gomarolo;  qui poteva inoltre dedicarsi a coltivare i fiori, sua grande passione, nel piccolo giardino intorno a casa. A chi le chiedeva se le piaceva abitare qui rispondeva: altrochè! a so comodà ben che mai, e aver vissini i carabigniri la xè proprio ‘na fortuna…fatomai che i vegna i ladri qua!!!!
La sua salute rimaneva abbastanza stazionaria, facendo regolari controlli o visite e  cure di vario genere per tutti i suoi numerosi problemi.
Quando la malattia la colpì più duramente, a partire dall’estate del 1992, ebbe un declino rapido, proprio in coincidenza del nostro trasloco nella casa nuova dove lei aveva la sua camera con bagno e tutto al pianoterra, come aveva sempre sognato. Non era destino che potesse godere di quelle comodità.  Repentinamente diventò incapace a camminare, ma rimaneva serena ed abbastanza consapevole. Si preoccupava di non disturbare! E così, in silenzio, con la discrezione e la delicatezza che l’avevano sempre contraddistinta, si allontanò per sempre in un pomeriggio pieno di sole del 13 maggio 1993, dopo che io e la Elena l’avevamo cambiata e sistemata nel letto. Prima di addormentarsi ci disse queste parole: a me  ghì  comodà proprio ben…me para de essere in Paradiso! Quando dopo poco siamo tornate in camera per vedere se dormiva, abbiamo visto che aveva chiuso gli occhi per sempre, e non volevamo crederci.

Ma tu, nonna Elena, non sei mai scomparsa e tuttora sei nella nostra vita come un raggio di sole in un giorno bellissimo di maggio.

I tuoi figli Maria Teresa e Pier Giorgio
2 marzo 2013