venerdì 19 ottobre 2012

23 ottobre 1912 – 2012 100 ANNI DALLA NASCITA DEL NONNO MINO


IL NONNO MINO - COM'ERA



Il Nonno Mino era di carattere mite, molto determinato, positivo; nella vita come nel lavoro era pieno di buona volontà per fare bene tutto ciò in cui si impegnava; era molto tenace e sopportava senza lamentele sacrifici e sforzi inauditi; si adattava alle situazioni più disparate; era onesto, di parola e molto corretto nei rapporti con gli altri, disponibile ad aiutare chi fosse in difficoltà.
Si comportava con una naturale spontaneità e schiettezza e non sopportava i formalismi.
Era discreto, riservato, non si buttava nelle chiassate e non frequentava bar o feste varie, solo la Messa domenicale.  Viveva la religione come una parte spirituale e sostanziale della vita, tradotta in un modo di essere totalmente coerente con il Vangelo di Gesù Cristo. Coltivava un legame indissolubile con i suoi poveri Morti… li sentiva come fossero accanto a lui, ricordandoli e pregandoli spesso. Non si occupava direttamente di politica, però era attento agli avvenimenti della società avendo idee socialiste.   Era loquace con le persone care, estroverso e di compagnia, però amava molto anche stare da solo… gli piaceva riflettere sulla vita, sulla natura e le sue meraviglie… possiamo dire che aveva  concretezza e  laboriosità legate ad un animo contemplativo.
Gli piacevano  la musica ed il canto ; era molto intonato e cantare in coro lo rendeva felice;  zufolava spesso e sapeva suonare vari motivi con la spineta (armonica a bocca, la mitica “Bravi Alpini”) e con l’ocarina (strumenti che gli avevano portato i suoi compagni di lavoro dall’Abruzzo mentre erano nei cantieri in Val d’Aosta). Nelle sere d’inverno, in cucina, spesso cantavamo le canzoni popolari e di guerra, poi ci suonava brani che aveva imparato come Reginella campagnola, Chiesetta alpina, Piemontesina bella…che erano le sue preferite, ed altre.
Amava molto tenere in ordine le sue cose personali e della casa; sapeva lavare gli indumenti e rammendarli;  riparava tanti oggetti personali, con cura, in modo da farli durare il più possibile. Ogni cosa, grande o piccola che fosse, aveva in sé un valore che non doveva essere trascurato…per questo conservava e riciclava ogni bendidio: spaghi, bottoni, cinturini di orologi, pezzi di pelle e stoffe…all’occorrenza tutto poteva essere utile per aggiustare, ricostruire…
Diceva sempre di comperare poche cose ma di buona qualità, anche se costavano di più, perché così sono belle e durano a lungo.  A Gomarolo, nell’armadio della camera di sotto, ci sono ancora il suo cappotto di lana di prima qualità, a lisca di pesce ed il cappello in feltro della festa…e sono davvero ancora belli!   Inoltre, le scarpe erano un’altra sua passione: quelle della festa erano nere, di una pelle molto fine…lui le teneva pulite e lucidate ogni domenica.  Anche gli scarponi (che erano le calzature di tutti i giorni) li teneva puliti e “ingrassati” con una cura quasi maniacale. Mi aveva insegnato a pulire, impatinare e lucidare le scarpe di tutta la famiglia, cosa che facevo dagli  8 -10 anni in poi da sola con impegno e scrupolo ogni lunedì mattina.
Aveva l’abitudine di fumare, con moderazione; si faceva lui le sigarette usando il tabacco trinciato e le cartine.
A tavola ci insegnava a mangiare tutto quello che ci dava la mamma, anche le briciole del pane, ed a pulire perfettamente il piatto (e noi facevamo a gara a chi lo puliva meglio, anche con la lingua!).  Quando macinava il caffè, se per sbaglio cadeva un chicco per terra, non era tranquillo finché non lo trovava e raccoglieva (era prezioso anche quello!)
Era molto “sparagnin” e per questo qualche volta la nonna Elena si lamentava perché a lei piaceva, ogni tanto, comperare qualcosa di nuovo per la casa;  ma sapendo dei brontolamenti, prima di fare qualsiasi spesa ci pensava non una volta sola. Ma alla fine lui la lasciava fare perché le voleva bene e piaceva anche a lui avere tutte le cose utili e belle per la casa.
Una cosa importante e che sapeva fare bene e volentieri era andare per legna nel bosco.  In autunno, al ritorno dai lavori stagionali, con lo zio Piero andavano nel Buste e tagliavano un certo numero di piante per legna da ardere (faggi, carpini…); per portarle a casa chiamavano il Gioani del Malo (che era suo cugino) con il suo cavallo Nino ed il carretto grande. Poi con la sega a mano tagliavano i tronchi della lunghezza delle “stele”, li dividevano con la “menara” (la scure) ed il nonno, con il nostro aiuto, faceva “el stelaro”, con una meticolosità incredibile, perché gli piaceva che fosse perfetto, con la legna tutta ben allineata (lo zio Piero lo prendeva in giro a volte, per scherzo: varda qua Mino, che ghe xè na stela fora de posto!! e poi ridevano).
Amava il bosco, e nel bosco il nonno Mino si sentiva nel suo ambiente ideale; osservava ed ammirava ogni meraviglia della natura: pietre, muschi, felci, cespugli, bacche, i grandi alberi che, quando tagliava, gli mostravano tutta la loro storia nei cerchi del tronco;  e poi i fiori, i frutti, gli uccelli, i serpenti, gli insetti di ogni specie. In particolare conosceva molte specie di uccelli, ne amava il canto e, di alcuni, ne sapeva riprodurre il verso zufolando. Tante volte tornava dal bosco portando la pelle di muta dei serpenti (soprattutto vipere) per farcela vedere; ci portava anche  radici (come quella della liquirizia, per esempio, che noi masticavamo per il suo dolce succo), frutti di stagione come pere, mele, castagne, nocciole.  Raccoglieva anche pezzi di legno dalle forme strane, di fronte a cui lasciava fantasticare la sua immaginazione.
Spesso ci raccontava delle meravigliose distese di rododendri, genziane e numerose altre specie di fiori di alta montagna dai bellissimi colori, che poteva ammirare quando si trovava lì con il cantiere di lavoro.
In primavera invece, prima di partire per i lavori, sempre insieme allo zio Piero, “sapponavano e tarassavano” gli orti per piantare patate e fagioli, che poi avrebbe coltivato la nonna Elena con l’aiuto del nonno Checo, finchè ha potuto.
Al nonno Mino piaceva tenere le galline e i conigli. Da bambini ci mandava nei prati a raccogliere le “lengue de vaca” da far mangiare ai conigli, che ne erano ghiotti.  Curava gli animali con una dedizione incredibile, era molto attento alle loro necessità, a volte  parlava con loro  mentre curava la pulizia delle stie o dava da mangiare; d’inverno, con le alte nevicate, alla mattina faceva la strada per le galline, spalando la neve per un bel tratto dietro casa affinchè potessero comunque uscire ed andare a beccare.
Non si può dire altrettanto delle mucche, per le quali non aveva alcuna propensione, anzi… ne era quasi terrorizzato. Noi pensiamo che possa avere avuto qualche brutta esperienza da piccolo, per esempio una cornata, al punto da fargli temere questi animali. Tant’è vero che non ha mai aiutato in stalla il nonno Checo, nonostante fra loro ci fosse una rispettosa convivenza e una buona collaborazione in tutto.
Con la sua Maria andavano molto d’accordo;  si aiutavano, ragionavano molto sulle cose e decidevano insieme le scelte da fare.  Gli piaceva aiutarla in cucina…pelare le patate, pulire la verdura, rompere noci e  nocciole per fare il croccante…e lei era molto contenta e faceva di tutto per preparare, quando poteva, delle buone cosette.   Lui era di bocca buona, ma era felice quando lei preparava alla domenica la carne in umido con la polenta (e la faceva buonissima), o le buone minestre di verdura, quando avanzavano le uova i biscoti lunghi, le fritole e i grustuli de carnevale, la torta col sangue del mas-cio!

LA SUA STORIA

Il Nonno Mino (Domenico Pezzin)  era nato il 23 ottobre 1912 a Gomarolo di Conco, provincia di Vicenza.  Siamo quasi certi che la casa di nascita sia quella segnata con la freccia sulla foto e che si trova nella contrà Puvole, al centro della frazione di Gomarolo, dietro alla chiesa (lì siamo nati anche noi due). Non siamo sicuri che alla sua nascita la chiesetta fosse già stata costruita; prima infatti c’era un capitello all’interno di un prato/orto di proprietà del bisnonno Piero (Nonno della Nonna Elena)  che decise di donarlo alla Parrocchia proprio allo scopo di edificare la chiesa.
Il papà del nonno Mino era Pietro Pezzin, detto Piero dela Siora (anche Sioreta), nato nel 18 ………      e morto nel 19………..a Gomarolo; apparteneva al ramo Pezzin dei Jacomiti  (lo stesso della nonna Elena).  La mamma era Rizzollo Maria, detta Maria Cota, nata nel 18…..e morta nel 19…… a Gomarolo; apparteneva alla Famiglia Rizzollo della contrà Jacomiti  (successivamente  denominata contrà Rizzoli).


Non sappiamo come il nonno Piero dela Sioreta fosse venuto in proprietà della casa dei Puvole, ma quasi certamente a seguito di spartizioni di eredità della Famiglia originale, abbastanza benestante.   Una curiosità:  il nonno Piero aveva il soprannome Sioreta perché sua mamma, originaria della contrà  Ursi  (che sta sulla strada tra Conco e Fontanelle) amava fare la signora  (siora) cioè lavorare poco, vestirsi bene e fare una vita agiata.  Insomma, il contrario di quello che era il normale andamento in quei tempi della vita in generale e delle donne in particolare….vita di stenti e fatiche,privazioni, sacrifici….


La famiglia del nonno Mino, nella sua giovinezza, era composta da  papà, mamma,sorella Maria (di qualche anno più giovane) e una zia paterna, Teresa, non sposata.     Da notare che 4 fratellini (o sorelline, non lo sappiamo) erano morti subito dopo la nascita.  Lui era affezionatissimo a sua sorella, che però, all’età di 16 anni, a causa di una malattia sconosciuta  (dicevano disturbi legati all’età dello sviluppo) è morta.  Ciò gli causò uno dei più grandi dolori della sua vita.    Non sappiamo se prima o dopo questo tristissimo evento, anche il papà morì per malattia;  era sempre stato di salute un po’ cagionevole.

A questo punto, intorno ai 18 – 20 anni, il nonno Mino è diventato l’uomo di casa, il capofamiglia, vivendo con mamma e zia.


Nell’infanzia frequentò la scuola elementare fino alla classe quarta, che ai tempi era un bel titolo!  Già in tenera età aiutava molto in famiglia per coltivare l’orto, procurare legna per l’inverno, allevare galline e conigli ed aiutare in tutte le attività domestiche necessarie per mandare avanti la famiglia.  Era un bambino sano e vivace, molto giudizioso ed incline alla laboriosità. Come tutti i bambini ogni tanto si permetteva qualche gioco o svago in compagnia. Uno di questi, molto diffuso, era quello di saltare sui rami delle piante tagliate e portate a casa dal bosco, poi accatastate a terra pronte per fare legna;  i bambini ci saltavano sopra dalla parte della cima utilizzandoli come elastici per fare a gara a chi riusciva ad andare più in alto…E’ capitato al nonno che gli scivolasse un piede  e  cadere giù di peso battendo violentemente le sue “palline” sul tronco! Nel raccontarcelo faceva ancora una certa faccia….come di dolore  vivo…ed aggiungeva che noi due forse avevamo rischiato di non nascere mai…

In quei tempi non c’erano redditi in famiglia, perciò intorno ai 10 – 11 anni iniziò a lavorare.

Poiché la sua era una delle poche famiglie che non aveva la stalla con le mucche, lui si prestava ad aiutare i contadini vicini nei lavori agricoli in cambio del latte che serviva alla sua famiglia.   Ma ben presto, a 13 – 14 anni, riuscì a diventare aiutante del vecio Bonato, un possidente della frazione che aveva l’attività di trasporto merci da e per la pianura (Marostica, Bassano) con l’utilizzo di carretto e mulo; le merci  erano soprattutto generi alimentari per rifornire i negozi di Gomarolo, Fontanelle e Conco.   Era un lavoro molto impegnativo e di responsabilità, che presupponeva un rapporto di grande fiducia in lui da parte del padrone.   Ma questa fiducia fu certo ben riposta, al punto  che, dopo qualche anno come garzone, il nonno Mino diventò carrettiere-conducente  e potè svolgere da solo quel lavoro che gli dava il reddito necessario per mantenere la sua famiglia.  Lo fece per molti anni, sempre con grande entusiasmo, considerata anche la sua forte passione per i cavalli ed i muli….!

Il fatto di essere figlio unico di madre vedova gli aveva evitato di dover fare il servizio militare di leva a vent’anni.  Ma purtroppo non impedì di essere chiamato alle armi quando l’Italia entrò in guerra, la seconda guerra mondiale.
Già nel 1939 infatti dovette lasciare lavoro, mamma, zia e (quasi) morosa (la nonna Elena) e partire per il fronte.   Dapprima in Grecia e Albania fino al 1943; poi fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania ad Hannover, dove per due anni lavorò sotto le SS  rischiando ogni giorno la morte per fame, stenti, malattie, freddo ed anche internamento nel lager, se avesse combinato qualche grave sgarro.

LA GUERRA

Nel marzo 1939 viene richiamato alle armi a Bolzano presso il 232° Reggimento Fanteria, N. di matricola 21759,  4° Battaglione mitraglieri di Corpo d’Armata. Essendo stato ammalato di pleurite negli anni precedenti, con ripetuti ricoveri all’ospedale militare di Bolzano, gli venne concesso un periodo di congedo di 12 mesi.  Ma nel dicembre 1940 deve rientrare  al Corpo e nel marzo 1941 partire per la campagna di guerra in Grecia-Albania;  viene imbarcato a Bari e sbarco a Durazzo (Albania). Dell’imbarco, che lo aveva molto colpito ricordava il terrore dei muli quando venivano issati con le imbragature sulla nave e che si manifestava con abbondanti “scagassae” dall’alto… rideva ancora con amarezza mentre lo raccontava.



Lui ricordava in continuazione gli anni della guerra e raccontava molto spesso fatti drammatici che più lo avevano colpito e coinvolto;  ne parlava spesso nelle sere d’inverno quando, dopo cena, stavamo tutti insieme lì in cucina, anche il nonno Checo e lo zio Piero.

Ci raccontava che la Grecia e l’Albania erano terre meravigliose, con bellissima vegetazione, orti e limoneti ovunque, il mare incantevole;  la popolazione molto spaventata, ma non più di tanto ostile quando loro soldati chiedevano qualche aiuto.   Gli sembrava impossibile dover sparare, uccidere, rischiare la vita in posti così belli ed ospitali.

Quando si ammalò di malaria è stato terribilmente male, con febbre altissima e deliri e, nei momenti di lucidità, era convinto che non sarebbe più guarito…invece la scampò, e questo lo ha sempre ritenuto un miracolo.   Dopo la guarigione, una notte ebbe un incubo.  Sognò di una lunghissima fila di lenzuola lavate  e stese sui fili ad asciugare al vento.  Nel frattempo si svegliò di soprassalto sentendosi levare le coperte dai piedi….ebbe subito un triste presagio….qualcosa di grave, pensò, doveva essere accaduto a casa sua.  Difatti in quella notte morì la sua adorata zia Teresa…

La paga che prendeva dall’esercito la mandava quasi tutta a casa per mantenere la mamma che era rimasta sola e non poteva fare granché per sopravvivere, salvo lavorare un po’ a cordela e tenere qualche gallina per avere  le uova da barattare con latte e legna.  Anche casa, orto e bosco erano stati pignorati quando erano al lastrico dopo la sua partenza per il fronte.

Un particolare drammatico che ricordava delle battaglie era la mancanza di acqua da bere, la grande sete subita…sui campi erano costretti a bere quella piovana che si raccoglieva nelle fossette lasciate nel fango dagli zoccoli dei muli…

Lui pure aveva un mulo da condurre; insieme dovevano garantire il trasporto di armi, munizioni ed anche viveri e generi di varia necessità.  Quante volte durante gli spostamenti lungo zone impervie e fangose, sotto piogge e fredde nebbie, il mulo si impuntava e non voleva più proseguire….riuscire a fargli cambiare idea non era certo cosa facile, ma in qualche modo lui ci doveva riuscire.


LA PRIGIONIA

Nel settembre 1943 il nonno Mino fu catturato dai tedeschi a Durazzo, fatto prigioniero e deportato in Germania con un viaggio interminabile. I soldati furono fatti salire su treni con vagoni bestiame, dove erano ammassati in condizioni a dir poco disumane. Il viaggio fu interminabile perché il lento percorso toccò Iugoslavia, Bulgaria, Romania, Ucraina, Polonia, Russia per arrivare infine in Germania.  Ad Hannover venne assegnato ai lavori forzati ed impiegato nella rimozione di macerie e trasporti materiali vari.  

 I prigionieri erano costantemente esposti ai bombardamenti che avvenivano di frequente sulla città… Sia sul lavoro che nelle baracche-dormitorio erano trattati come schiavi; poco cibo e cattivo, molto freddo, tante punizioni individuali ma anche collettive se sgarravano.   Se la violazione fosse stata grave, i colpevoli venivano puniti con l’internamento nei campi di concentramento e, diceva lui, quelli difficilmente tornavano indietro. 

Una volta, raccontava, due vennero internati e soltanto uno ritornò dopo mesi, ma era la scheletro di se stesso.  Erano stati puniti perché le guardie li avevano sorpresi a prendere patate da un magazzino diroccato in cui la squadra di prigionieri aveva l’incarico di sgomberare le macerie. Le guardie si accorsero che i due andavano e venivano da questo magazzino, vollero sapere il motivo e quando seppero delle patate sottratte li arrestarono immediatamente, senza tener conto delle ragioni dei due poveri disgraziati che ripetevano loro di aver preso le patate per fame….

Anche il nonno era andato nel magazzino pensando di prendere qualche patata; ma prima ebbe necessità di fare “un bisogno” dietro a un muro…la guardia, insospettita, volle fare un’ispezione per vedere se era proprio vero che era andato dietro al magazzino per quel motivo e, solo dopo aver visto personalmente il “corpo del reato” rimandò il nonno al lavoro con una buona dose di insulti (ma in tedesco!).

Per sopperire alla necessità di mangiare qualcosa oltre la “mensa”, egli aveva escogitato un sistema  “legale”  (o quantomeno tollerato dagli aguzzini): preparava piccole fascinette di legna, raccattata qua e là in città  e le offriva alle persone (in particolare donne anziane) in cambio di un pezzo di pane o una patata.  Questo riuscì a farlo ripetutamente senza incorrere in punizioni.  Ai prigionieri era tassativamente vietato cercare avanzi di cibo (per es. bucce di patate o resti di rape) nei rifiuti delle mense…la punizione sarebbe stata comunque severa.

Nel dormitorio le condizioni erano orribili.  Presi da attacchi di dissenteria, raccontava, una notte molti prigionieri dovettero andare nei cessi e per questo facevano parecchio rumore con le suole in legno degli zoccoli.  Le guardie dapprima intimarono di smetterla dall’alzarsi dalle cuccette, poi li minacciarono di punizione, infine fecero alzare tutti quelli della camerata e li costrinsero a rimanere in piedi fermi per tutta la notte, al freddo di gennaio.  Naturalmente il giorno seguente dovettero lavorare come il solito ed anche più intensamente per rimarcare la punizione.

In città lo avevano colpito la miriade di manifesti che incitavano la popolazione a tenere comportamenti conformi al regime.  In particolare ne ricordava uno che diceva:  attenzione, il nemico ti ascolta!! (naturalmente in tedesco).
Ad Hannover il nonno rimase fino all’aprile 1945, quando giunsero gli Alleati.  Non subito però ritornò a casa, ma solamente in settembre, passando da ospedali e caserme varie, per subire controlli igienico-sanitari e ricevere cure ed alimentazione adeguata.  Nonostante tutto ciò, quando arrivò a casa, sua mamma stentò a riconoscerlo….Per loro due fu come una seconda nascita.  Aveva 33 anni quasi compiuti. Noi pensiamo che, soltanto per merito del suo organismo robusto e sano, egli abbia potuto sopravvivere a cinque anni di vita così dura, oltre naturalmente alla fortuna di essere scampato al fuoco delle armi.


LA FAMIGLIA

Ancora prima di partire per la guerra, il nonno Mino aveva messo gli occhi sulla Maria del Checo Comare, una ragazza della contrà Jacomiti, bella e prosperosa (come piacevano a lui),molto seria e brava sia in casa che nei lavori agricoli, la prima di quattro sorelle e due fratelli.

El ghe stava drio e desiderava molto frequentarla per capire se potevano essere fatti l’una per l’altro.  Ma purtroppo arrivò la  “cartolina” della chiamata alle armi e così dovettero salutarsi promettendosi il reciproco ricordo anche nella lontananza.  Avevano 27 anni lui e 26 lei.      E così per cinque lunghi anni il loro affetto fu tenuto alimentato dal pensiero costante, dalle lettere e dalla speranza di potersi rivedere.  Fu così, alfine, che il Mino portò a casa la vita, salvata tante volte per miracolo, e potè riabbracciare la donna che amava, ora sì ancora di più, ritrovandola come un grande dono, un bene per lui prezioso.  Era il settembre 1945.

I segni, anche, se non soprattutto, morali delle devastanti esperienze subite, erano impressi per sempre come segni di fuoco e non fu certo questa una cosa semplice da sopportare e superare.   Ma lui aveva un carattere positivo, coraggioso e reagì…

E’ vero che non trovò più la sua adorata zia Teresa, ma il cielo volle che la mamma Maria fosse riuscita a sopravvivere agli stenti di quel terribile periodo.  E poi…ritrovò la sua seconda Maria (nonna Elena), quella ragazza (che ormai aveva compiuto 32 anni!) adorabile, buona ed intelligente, laboriosa e paziente.  Nel ritrovarsi, capirono subito di essere fatti l’uno per l’altra e, senza altre esitazioni, si fecero fidanzati e cominciarono a pensare al matrimonio, seppur poveri in canna!!   Lui aveva compiuto 33 anni (uno più di lei) e, per quei tempi, erano già un po’ in ritardo rispetto alle “normali” età delle nozze.   Comunque le famiglie erano d’accordo e fortunatamente  la casa era nuovamente di sua proprietà in quanto, nel 1944, sua mamma l’aveva riscattata dall’ipoteca con la somma di 3500 lire, risparmiate dalle paghe militari che lui le inviava durante la guerra.  Perciò fissarono la data delle nozze, che avvennero il 23 novembre 1946, alle 6 di mattina nella Chiesa Parrocchiale di Conco, con la presenza dei testimoni e dei Genitori.

Subito dopo la cerimonia, gli sposi partirono per Padova con la corriera, diretti alla Basilica di Sant’Antonio, dove si fermarono fino al pomeriggio e rientrando a casa la sera stessa.   Scelsero quella meta come viaggio di nozze per devozione al Santo ed anche per ringraziare Dio della fortuna di essersi ritrovati e poter pensare alla loro futura famiglia.

In quel periodo, subito dopo il rientro dalla Germania, il nonno trovò da fare dei lavoretti per il Comune  come la manutenzione strade o nell’edilizia; ma era poca cosa…Purtroppo il lavoro di conducente non potè più esercitarlo poiché il Bonato aveva dovuto rinunciare all’attività di trasporto merci.  Così anche il nonno, come tantissimi altri giovani di quei paesi, dovette adattarsi a cercare un lavoro via da casa e scelse quello stagionale nelle regioni italiane del nord-ovest (escludendo categoricamente di emigrare verso l’Australia o l’America, come tanti fecero in quel periodo).   Si iscrisse alle liste di collocamento ed ebbe un posto presso un’impresa edile in Val d’Aosta, insieme a qualche suo compagno della frazione.   Partirono infatti nei primi mesi del 1947, verso quelle destinazioni lontane ed ignote…Nello zaino poche cose essenziali, qualche indumento e due tre fette di polenta.   Quel primo viaggio lo fecero in camionstop, nel senso che trovarono in varie tappe dei camionisti generosi che li facevano salire nel cassone…I giorni di viaggio furono numerosi, le notti le trascorrevano chiedendo ospitalità per dormire nei fienili  di famiglie generose del paese di sosta, brava gente che li accoglieva pur senza conoscerli  (ma allora era così, la solidarietà stava alla base della convivenza).  E così, di tappa in tappa, i nostri avventurosi viandanti riuscirono ad arrivare a destinazione cantiere di lavoro, ovvero sulle montagne aostane. Arrivati al cantiere, eccoli pronti alla vita dura e sacrifici inumani  (ma almeno si era in pace..) sulle alte montagne,  fra pericoli di ogni genere,  per la costruzione di gallerie, strade, teleferiche ed abitazioni varie.  Però la contropartita era il salario garantito da mandare a casa per mantenere la famiglia.  Si, proprio la famiglia, perché, oltre alla mamma e alla moglie, quando ritornò a casa ai primi di novembre del 1947, fece giusto in tempo a vedere nascere il suo primo bambino, anzi bambinone perché pesava tra i 4 e i 5 chili, il regalo che la sua Maria gli aveva preparato e che battezzarono chiamandolo Piergiorgio (Piero come il papà del Nonno e Giorgio perché era un nome che piaceva alla zia Suor Isetta, sorella della nonna Elena!).  La gioia immensa nel diventare papà riscattò e  lenì le indescrivibili angustie subite in guerra e prigionia ed i sacrifici di un lavoro duro lontano da casa. 

Andò subito per legna perché bisognava scaldarla bene la casa quell’inverno, e così il legnaro ben presto fu bello ed abbondante.  Purtroppo doveva pagare per tagliare le piante, in quanto anche il loro bosco, il Buste, era stato pignorato durante la guerra;  ed è per questo che nel marzo 1948, appena messa da parte la somma necessaria, potè procedere al tanto desiderato riscatto, al costo di 5000 lire.  Questo gli permise, ogni autunno quando tornava dai lavori, di tagliare tutta la buona legna che serviva per riscaldare durante l’inverno e cucinare tutto l’anno con la fornela  (allora mica c’era il gas!!).
Dopo due anni, e cioè nel dicembre 1949, ecco un altro regalo della sua Maria , una bambina che chiamarono Maria Teresa (Maria come la sorella morta a 16 anni e Teresa come la zia).
Ecco, la famiglia adesso era proprio una realtà meravigliosa per lui, per loro, visto quanto l’avevano desiderata!  Una grande soddisfazione ma, nel contempo, anche un grande impegno nel cercare di non far mancare niente di quanto era giusto e necessario.
Così ogni primavera c’è la sofferenza della partenza, poiché il lavoro, purtroppo, seppur stagionale  (l’inverno lo passava a casa prendendo l’assegno di disoccupazione), era sempre lontano e della durata di 7 – 8 mesi consecutivi.  Questa cosa gli pesava, gli costava tantissima sofferenza morale…al punto che, più avanti negli anni (più o meno quando noi bambini avevamo 5 -6 anni), aveva proposto alla nostra mamma di trasferirsi tutti in Piemonte, dove gli era stato offerto un posto di lavoro in una portineria, non so se di una fabbrica o di una villa.  La nostra mamma non se l’è sentita di fare questo passo, anche perché nel frattempo (1951) moriva sua mamma e così toccava a lei seguire il suo papà che teneva ancora mucche e terra da lavorare.
Così il nonno Mino continuò per tanti anni a lavorare lontano dalla sua famiglia. 
Nel 1953 morì la sua mamma.
Pensarono allora (1954) di andare ad abitare nella casa del nonno Checo, che era più grande e c’era spazio per tutti; insieme viveva anche lo zio Piero, fratello della nonna Elena, nei mesi in cui anche lui tornava dai lavori stagionali, sempre in Val d’Aosta. Per lui, loro due erano come un padre e un fratello.
Per noi, ma anche per il nonno naturalmente, il giorno più bello dell’anno era quando tornava a casa dai lavori!! noi gli andavamo incontro alla fermata della corriera…lo ricordiamo con la valigia pesante e lo zaino pieno…ci portava a casa sempre i cioccolatini ferrero che gli davano alla mensa operaia e che lui non mangiava mai per poterli portare a noi bambini.
Era sempre molto magro, anche il viso scarnito…ma dopo qualche giorno dall’arrivo, con un caldo bagno e la barba fatta, cambiava aspetto……il volto diventava bello disteso, aveva voglia di raccontarci tante cose (un po’ belle,  un po’ brutte)  della sua vita, del suo lavoro, dei suoi compagni meridionali (brute bestie, diceva, ma gran brave persone!) con i quali andava molto d’accordo, si aiutavano e si volevano bene .   Gli piaceva farci ridere raccontandoci barzellette e storielle scherzose, fatti strani che  erano successi in giro per il mondo.   E poi cantare e cantare, in coro alla sera….era la sua passione, dopo le preghiere recitate tutti insieme.
Nel ………. i nostri genitori vendettero la casa dei Puvole e nel 1959  comperarono dallo zio Piero (che la aveva ereditata) la casa attuale; fecero dei lavori di ristrutturazione ed acquistarono la loro camera da letto nuova, in noce, di cui andavano orgogliosi per la qualità e l’estetica (è quella che ancora adesso si trova nella camera di sopra).  Ci trasferimmo lì, proprio accanto alla casa del nonno Checo  che doveva essere sistemata dallo zio Piero per sposarsi. 
Qualche anno dopo, nel 1963, acquistarono la casa dei Caneve: ciò permetteva loro di avere spazio dietro casa per lavori vari, per la legna,tenere le galline e pure una funzione di deposito – ripostiglio.
Purtroppo però la salute del nonno, dopo gli anni ’60, cominciò ad essere minata, così da riuscire sempre meno a sopportare le fatiche dei lavori stagionali.  Dapprima il forte mal di schiena, successivamente l’artrosi all’anca sinistra che gli causava, oltre a forti dolori, anche una impossibilità a camminare. Tanto  le cure farmacologiche come  quelle  termali (andava ogni anno ad Abano terme per fare i fanghi)  non servirono quasi più.  Fu allora che, nel 1965, gli fu praticato all’ospedale ortopedico di Mezzaselva (sopra Asiago) l’intervento di blocco della articolazione dell’anca; questa cosa fu di beneficio per i dolori, ma gli impediva di piegare la gamba e perciò di sedersi e camminare normalmente.  Chiese ed ottenne la pensione di invalidità nel 1966/67.
A questo punto potè finalmente ritirarsi nella sua casa, in compagnia della sua Maria.  In quei pochi anni (’66 – ’69) poterono condividere pienamente la vita di casa, coltivare l’orto (anche se con fatica per lui!), tenere le galline e trascorrere  insieme momenti di meritata serenità.
Anche noi bambini, diventati ragazzi, stavamo trovando la nostra strada;  loro erano molto orgogliosi di noi e, ad ogni nostro successo scolastico e lavorativo, ci manifestavano enorme gioia e stima.
Con l’introito di Piergiorgio, che era andato a lavorare in Germania, poterono sistemare la cucina con la piastrellatura ed acquistare gli  armadietti pensili, il nuovo fornello a gas, la nuova stufa a legna e la televisione.  Fecero costruire il bagno (tutti lavori fatti dallo zio Piero con l’aiuto del nonno).  Ed avevano in mente di costruire una stanza accanto e collegata alla cucina, per essere più comodi, più una cameretta sopra di essa.
Purtroppo però questo non potè mai avvenire;  un grosso guaio arrivò inatteso a troncare le loro aspettative: lui si ammalò allo stomaco e, nonostante un imponente intervento chirurgico e tanta voglia di vivere, la malattia sconfisse il suo forte spirito combattivo, quello che guerra, prigionia, vita dura e tanti sacrifici non avevano demolito.
All’età di 59 anni da poco compiuti, ci lasciò. Era il 25 novembre 1971.

Mentre l’autunno spogliava i boschi, i suoi boschi che lui tanto amava, un colpo di vento staccò anche la sua tenace foglia dal ramo della vita terrena

Grazie papà… sei sempre tra noi.

I tuoi figli Maria Teresa e Piergiorgio il 23 ottobre 2012